Divieto di rientro in ruolo per il giudice che ha ricoperto cariche politiche: si applica solo alle cariche assunte dopo l’entrata in vigore della legge

Ai fini temporali, però, il momento rilevante non è la data della proclamazione alla carica, ma quella della accettazione della candidatura

Divieto di rientro in ruolo per il giudice che ha ricoperto cariche politiche: si applica solo alle cariche assunte dopo l’entrata in vigore della legge

La riforma dell’ordinamento giudiziario, datata giugno 2022, che vieta ai magistrati il rientro in ruolo con funzioni giurisdizionali dopo aver ricoperto cariche politiche, si applica alle cariche assunte dopo lentrata in vigore della legge. Ai fini temporali, quindi, il momento rilevante non è la data della proclamazione alla carica, ma quella della accettazione della candidatura, in base al principio di irretroattività e a tutela del legittimo affidamento del magistrato.
Questo il principio fissato dai giudici (sentenza numero 8958 del 17 novembre 2025 del Consiglio di Stato) alla luce del contenzioso tra un magistrato, rientrato in servizio dopo essersi dimesso da consigliere comunale, e il
Consiglio superiore della magistratura.
In sostanza,
l’assunzione dell’incarico politico-amministrativo di consigliere comunale – nel caso specifico, quale candidato sindaco non eletto –, benché formalmente proclamata dopo l’entrata in vigore della legge-delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario, costituisce l’esito di un procedimento elettorale unitario, le cui fasi sono strettamente connesse e che non può essere inciso da norme sopravvenute idonee ad alterare il regolare svolgimento della competizione, condizionando le scelte dei candidati degli elettori. Anche perché, precisano i giudici, la scelta circa l’accettazione della candidatura è evidentemente orientata anche dalla valutazione delle conseguenze sulla sfera professionale del soggetto, al quale deve essere riservata la piena libertà di esprimere la propria opzione.
La specifica vicenda riguarda un magistrato ordinario che ha ricoperto l’incarico di consigliere comunale, all’esito di elezioni amministrative tenutesi nella primavera del 2022. Più precisamente, la sua elezione a componente dell’organo politico-amministrativo locale viene proclamata il 28 giugno 2022, quale candidato sindaco non eletto al primo turno, svoltosi il precedente 12 giugno.
Il successivo 12 ottobre 2022 ottiene dal ‘Consiglio superiore della magistratura’ di essere collocato in aspettativa. Pochi mesi dopo, però, a fine gennaio 2023, domanda di essere ricollocato in ruolo, ma questa istanza viene respinta dal ‘Consiglio superiore della magistratura’ alla luce della riforma, datata giugno 2022, dell’ordinamento giudiziario. Nello specifico, il riferimento è al passaggio in cui è previsto che i magistrati ordinari che hanno ricoperto la carica di consigliere comunale, al termine del mandato, qualora non abbiano già maturato l’età per il pensionamento obbligatorio, sono collocati fuori ruolo, presso il Ministero, ovvero sono ricollocati in ruolo e destinati dai rispettivi organi di autogoverno allo svolgimento di attività non direttamente giurisdizionali, né giudicanti né requirenti.
Decisivo, secondo il ‘Consiglio superiore della magistratura’, il fatto che la limitazione si applichi alle cariche assunte, come nel caso specifico, dopo la data di entrata in vigore della legge.
Questa visione viene contestata dai magistrati del Consiglio di Stato, per i quali è sicuramente corretta, normativa alla mano, l’individuazione nella proclamazione degli eletti in consiglio comunale del momento a cui va fatta risalire l’assunzione dell’incarico comportante l’incompatibilità con le funzioni giurisdizionali. Ciò anche per il candidato sindaco non eletto, malgrado tale esito fosse certo già alla luce dei risultati delle votazioni del primo turno elettorale, in conformità alla specifica disciplina prevista per i Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti.
Logico, quindi, affermare che nel procedimento elettorale alcun rilievo giuridico riveste l’accettazione della candidatura alla carica di sindaco, in assenza di disposizioni di legge che valgano ad attribuirgliene.
Tuttavia, non altrettanto può affermarsi per la rinuncia, quando il procedimento elettorale sia già pervenuto alla fase della votazione, sia pure al primo turno – svoltosi, nel caso in esame, prima dell’entrate in vigore della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario – secondo il sistema previsto per i Comuni con più di 15.000 abitanti. Essa comporta infatti la vanificazione della volontà popolare espressa a favore del rinunciante e l’alterazione per questa parte del risultato complessivo, a favore di candidati alla carica di consigliere comunale che altrimenti non sarebbero stati eletti, secondo le modalità di assegnazione dei seggi prevista dal ‘Testo unico degli enti locali’.
L’errore è, spiegano i magistrati del Consiglio di Stato, quello di non considerare che l’assunzione dell’incarico politico-amministrativo di consigliere comunale, quale sindaco non eletto, benché formalmente proclamata dopo l’entrata in vigore della legge-delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario, costituisce l’esito di un procedimento elettorale unitario che ha avuto origine in epoca antecedente, le cui fasi sono strettamente connesse. Tale procedimento non può essere inciso da norme sopravvenute idonee ad alterare il regolare svolgimento della competizione, condizionando le scelte dei candidati. Sotto questo profilo va infatti considerato che la scelta circa l’accettazione della candidatura è evidentemente orientata anche dalla valutazione delle conseguenze sulla sfera professionale del soggetto, al quale deve essere riservata la piena libertà di esprimere la propria opzione.
Analizzando lo specifico caso, se si ritenesse applicabile la disciplina sopravvenuta, il magistrato candidato sarebbe costretto a rivedere – ed eventualmente modificare – una scelta liberamente compiuta, nel contesto di una normativa che gli assicurava, al termine del mandato elettorale, il diritto al rientro nell’esercizio delle funzioni. In particolare, qualora ritenesse imprescindibile la conservazione del diritto al rientro in ruolo, dovrebbe rinunciare alla candidatura ritualmente accettata. E ciò determinerebbe un vulnus ingiustificato non solo al suo diritto di elettorato passivo, ma comporterebbe pregiudizi – non ragionevolmente preventivabili – per le liste elettorali collegate alla candidatura, alterando il fisiologico dispiegarsi della competizione elettorale, menomando anche il diritto di elettorato attivo dei cittadini.
Non può trascurarsi, poi, la circostanza che, sempre analizzando lo specifico caso, la legge è sopravvenuta in un’epoca successiva allo svolgimento del primo turno delle elezioni. Ora, anche ponendo da parte la constatazione che già in tale momento era agevolmente accertabile che il giudice avesse già conseguito il risultato necessario per l’attribuzione del seggio di consigliere comunale, risulta evidente che al momento dell’entrata in vigore della legge gli elettori avevano già compiuto le proprie consapevoli scelte, correlate, anche, alla ragionevole convinzione che nessuna norma sopravvenuta avrebbe potuto condizionare l’accettazione, o meno, dell’incarico di consigliere comunale del candidato votato. Sotto questo profilo, le conseguenze su di esso derivanti dalla rinuncia del magistrato candidatosi sindaco non eletto, poc’anzi descritte, vanno dunque fatte risalire ad un atto di volontà espresso dal soggetto al momento dell’accettazione della candidatura, quando la regola giuridica dell’incompatibilità assoluta tra funzioni giurisdizionali e incarichi politico-amministrativi non era ancora in vigore.
Ne deriva che la sua applicazione al caso specifico comporta un’incidenza sul procedimento di formazione della volontà popolare che evidentemente eccede le finalità della legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario, con il rigoroso regime con esso introdotto. Con essa si è infatti voluto assoggettare i magistrati alla regola dell’esclusività della carriera nell’ordine giudiziario rispetto ad incarichi comportanti funzioni e responsabilità di carattere politico, a tutela dell’immagine di imparzialità della funzione giurisdizionale. Risulta dunque evidente, secondo i magistrati del Consiglio di Stato, che in tanto la regola possa operare in quanto questa sia già in vigore al momento dell’espressione da parte del magistrato della volontà di concorrere all’assunzione di una carica politico-amministrativa. Ebbene, nello specifico caso, è pacifico che quest’atto di volontà si colloca in epoca antecedente, così come l’avvio del procedimento elettorale all’esito del quale il ricorrente ha assunto la carica di consigliere comunale. Poiché dunque è a questo momento che occorre avere riguardo per l’applicazione del divieto previsto dalla riforma dell’ordinamento giudiziario, ne deriva in conclusione che, in questa vicenda, ad esso il magistrato non può ritenersi soggetto.

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